Primo maggio, le fotografie di Ferruccio Malandrini

Primo maggio dei lavoratori, piccolo mondo antico? Le fotografie di Ferruccio Malandrini nella mostra Primo Maggio Mensano aperta a Siena alla Biblioteca Comunale degli Intronati ci fanno fare un gran tuffo nel passato.

Un passato che in queste settimane di confusione politica generale sembra lontano lontano lontano.

Si tratta di 80 fotografie realizzate sempre il primo maggio, sempre a Mensano – comune di Casole, provincia di Siena – negli anni che vanno dal 1963 al 1975.

Raccontano i valori di una società e insieme, come scrive Pietro Clemente nel catalogo, “il rito di affermazione di una nuova identità, quella della dignità del mondo del lavoro, operaio o rurale che sia. E non è una gita fuori porta, ma un rito pubblico, con comizio e abito da cerimonia”. E la banda, e la merenda tutti insieme.

The way we were.

Che poi, chissà.

Eppure in tutte le fotografie di Ferruccio Malandrini – classe 1930, gran fotografo e principe dei collezionisti di fotografie –

davvero splende il sol dell’avvenir e soffia il vento – anche se non infuria la bufera. Il vento di quella fede in un futuro migliore e più giusto che ha forgiato tanti italiani, per almeno tre generazioni.

Una fede che adesso, mah. E però, come scrisse il poeta inglese Tennyson: ‘Tis better to have loved and lost than never to have loved at all.

Buon primo maggio a tutti!

Margherita Abbozzo.

 

Tutte le foto sono di Ferruccio Malandrini. Il ritratto di Malandrini è di George Tatge.

La mostra è stata organizzata una prima volta nell’agosto del 1980 a Siena durante i quindici giorni della Festa de l’Unita’, e nel 1983 presso la biblioteca della Standford University di Firenze. Nel gennaio del 2017 le fotografie sono state nuovamente stampate e alcune nuove immagini arricchiscono la prima edizione.

La mostra è ad ingresso gratuito e si può visitare fino a sabato 26 maggio 2018. Orari: da lunedì al venerdì dalle ore 15.00 alle ore 19.00, il sabato dalle 9.00 alle 13.00. La domenica e i giorni festivi la mostra è chiusa.

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Storie di amore per l’arte: la Collezione Roberto Casamonti apre a Firenze

Nel cuore del cuore di Firenze. Al centro del centro: si accende una luce, ed è sfavillante.

E’ la collezione del gallerista Roberto Casamonti, che apre al piano nobile di uno dei palazzi più belli e più celebri di Firenze, il palazzo Bartolini Salimbeni in piazza Santa Trinita.

Proprio davanti alla colonna della Giustizia.

 

Una piazza che già da sola è da pura Sindrome di Stendhal. Un concentrato di bellezza ed eleganza che adesso, di più.

Roberto Casamonti è collezionista e gallerista. Autodidatta, gli ha portato fortuna seguire  l’istinto e la passione: negli anni ha messo insieme un gruppo straordinario di opere. Tante ne ha comprate e vendute. Queste sono quelle che non venderà mai. Raccontano “con autenticità storie di amore per l’arte” come dice lui stesso.

 

Amore. Passione. Gioia. Commozione: tutti termini che usa per raccontare quanto l’arte del Novecento italiano ma non solo sia stata importante per lui. Insieme all’incontro con gli artisti, che sono diventati amici e numi tutelari.

Adesso la sua collezione è aperta al pubblico. Gratuitamente.

Gli spazi, di una bellezza squisita, sono arredati con pannelli mobili – disegnati da suo figlio, l’architetto Marco Casamonti – che rendono gli ambienti facilmente trasformabili. L’insieme dei lavori, qui allestiti con grande sapienza da Bruno Corà, è straordinario: davvero quasi non si crede ai propri occhi davanti ai tesori che riempiono le sale: una parete di Fontana di qua, una di Burri di là, e prima una di De Chirico, e poi due Dorazio stupendi, e ovunque quadri e sculture uno più bello dell’altro. Da rimanere veramente a bocca aperta.

Questa collezione, dice Roberto Casamonti, “non la voglio definire un museo” e serve a “mostrare il lavoro e le scelte di tutta la mia vita, sperando che la città di Firenze e tutti coloro che verranno a visitare questo spazio l’ apprezzeranno”.

Questo è un gran regalo a Firenze. E Casamonti è un nuovo Medici, un mecenate d’altri tempi.

Aperta dal 25 marzo. Per prenotazioni: http://www.collezionecasamonti.com

Margherita Abbozzo.

Tutte le fotografie sono mie, libere di essre usate da chiunque, graditi i credits, grazie.

 

 

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“Gloria del sesso donnesco”: Elisabetta Sirani agli Uffizi

Bella e brava: ma non è bastato perchè nei secoli gli storici dell’arte si ricordassero di Elisabetta Sirani, artista bolognese del Seicento. Nemmeno l’esser morta giovanissima, a 27 anni, à la Marylin Monroe, l’ha portata all’attenzione degli estensori dei canoni normativi della storia dell’arte.

Finchè non sono arrivate le storiche dell’arte americane degli anni Settanta del Novecento  che hanno avviato lo studio e la riscoperta delle artiste donne del passato. “Why Have There Been No Great Women Artists?” è il fondamentale e meritorio saggio del 1971 della grande storica dell’arte Linda Nochlin, vero capostipite sia della storia dell’arte che della teoria dell’arte femministe.

E meno male!

Da allora, un altro mondo è stato possibile e adesso sembra solo normale – anzi, doveroso – che una mostra racconti questa artista che era, appunto, brava. Anzi bravissima.

Dipingere e disegnare “da gran maestro”: il talento di Elisabetta Sirani (Bologna, 1638-1665)  è allestita agli Uffizi nella bellissima sala Edoardo Detti e nella Sala del Camino al primo piano,  ed è una mostra che si inserisce e continua il progetto inaugurato l’anno scorso di presentare il lavoro di artiste in occasione dell’8 marzo (vabbè).  E che si svolge in concomitanza con quella su Maria Lai aperta in Palazzo Pitti.

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La mostra agli Uffizi consente di apprezzare il gran talento di questa artista di  “stupefacente produttività e prodigiosa velocità esecutiva” – cominciò a lavorare a 17 anni e dipinse più di 200 quadri in 10 anni – e in più dotata di grande “facilità” e sicurezza della mano, sia nei dipinti che nei disegni e nelle incisioni.

Talento e doni evidenti nei 33 lavori in mostra, selezionati da Roberta Aliventi e Laura Da Rin Bettina, con il coordinamento scientifico di Marzia Faietti.

Elisabetta Sirani fu notissima ed ammiratissima ai suoi tempi, non solo nella sua città natale ma anche nel resto d’Italia e alle varie corti europee.  Un riconoscimento echeggiato  dallo storico dell’arte Carlo Cesare Malvasia che la definì “prodigio dell’arte, gloria del sesso donnesco, gemma d’Italia, sole d’Europa,  l’Angelovergine che dipinge da homo, ma anzi più che da homo”.

 

Colta, preparata, con un padre pittore che le aprì la possibilità di dedicarsi alla pittura, e in più pienamente consapevole del suo talento e della sua capacità di fare bene tutto, dai temi sacri a quelli storici e ai ritratti. Una artista con i fiocchi e i controfiocchi, che vi aspetta agli Uffizi. Fino al 10 giugno.

Margherita Abbozzo

 

Credits in ordine di apparizione:

Di Elisabetta Sirani (Bologna, 1638-1665):

Dettaglio dell’Allegoria della Pittura ( vedi sotto);

Madonna col Bambino e San Giovannino, 1664, Olio su tela, Pesaro, Comune di Pesaro, Musei Civici – Palazzo Mosca.

Allegoria della Pittura (autoritratto?), 1658, Olio su tela,  Mosca, The Pushkin State Museum of Fine Arts.

Riposo in Egitto, Acquaforte, Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe.

Ritratto del conte Annibale Ranuzzi, Pietra rossa, carta, Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe.

Anna Maria Ranuzzi ritratta come la Carità, Olio su tela, 1665, Bologna, Collezioni d’Arte e di Storia della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna.

Amorino trionfante in mare (Amorino Medici), 1661, Olio su tela, Bologna, collezione privata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Maria Lai, Il Filo e l’Infinito.

Una donnina piccina picciò. Eppure una roccia, tale e quale quelle della sua Olgiastra. E’ Maria Lai, artista sarda classe 1919, che viene oggi celebrata a cinque anni dalla morte con la mostra Il Filo e l’Infinito aperta a Palazzo Pitti nei locali dell’andito degli Angioini, che si trovano tra il primo e il secondo piano.

Non sono i locali più magniloquenti del palazzo, ma si tratta di stanze intime e raccolte, che però in questo caso fanno bene da cornice al lavoro di questa artista davvero grande, magica e poetica. L’allestimento è piuttosto insolito e curioso, tuttavia funziona: le pareti sono state coperte da grandi tele ecrù che rieccheggiano ed accompagnano i lavori creando un alone morbido che accompagna il visitatore nella scoperta di un’artista che sa riempire gli occhi e il cuore.

Perchè Maria Lai ha utilizzato stoffe, lenzuola, scampoli, filati e telai in tante forme e in tanti modi. Sempre con risultati  poetici. Chi l’avrebbe mai detto, vero? Una donna, una regione isolata dal mondo, le sue tradizioni antichissime, il cucire (figuriamoci!). E invece. Nal lavoro di Maria Lai le radici millenarie si intrecciano con l’arte contemporanea; i materiali della vita quotidiana con dimensioni filosofiche e di ricerca.

Mentre il cosìdetto “mondo dell’arte” era tutto impegnato a guardare da altre parti, Maria Lai inventava quella che anni e anni dopo il critico e curatore francese Nicolas Bourriaud avrebbe chiamato “arte relazionale”.   Pratiche che in Sardegna appaiono ancora più ricche di significato che altrove. Maria Lai riusciva a legare le persone tra di loro, e le persone al paesaggio, le case alle montagne: proprio letteralmente in questo caso, con un “happening” incredibile che, in video, apre la mostra.

Poi vengono i meravigliosi libri tessili, e tante opere impossibili da definire con un termine solo: sono arazzi, composizioni scultoree, istallazioni… impossibili anche da fotografare rendendo loro onore, e quindi impossibili da apprezzare soltanto in fotografia.

Maria Lai è stata celebrata l’anno scorso dalla Biennale di Venezia e da due mostre di Documenta, a Kassel ed Atene.  Adesso è ancora più semplice andare a vedere queste opere dal vero e mettersi davanti a questi lavori che parlano del rapporto che ognuno di noi intreccia con la vita, la poesia, la bellezza, con gli altri, e con l’infinito.

La mostra è aperta fino al 3 giugno. Andate e fate come raccomandava lei, “ascoltate con gli occhi“.

Margherita Abbozzo

Tutte le immagini sono mie e sono libere di essere usate da chiunque lo voglia, sono graditi i credits, grazie.

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Tracce, Arte e Moda.

A Firenze c’è un bel museo che dovrebbe essere conosciuto meglio. Si tratta di quello che una volta si chiamava Galleria del Costume e che adesso è stato ribattezzato Museo della Moda e del Costume. Si trova all’interno di Palazzo Pitti,  nella palazzina della Meridiana: in sale di squisita eleganza, che anche vuote sarebbero belle. Ma che per nostra fortuna sono invece piene di delizie.

Dopo la favolosa mostra “Il museo Effimero della Moda” della quale ho parlato qui,  vi inaugura in questi giorni il nuovo allestimento/mostra: Tracce, Dialoghi ad Arte nel museo della Moda e del Costume.  Che avvicina capi di vestiario di squisita fattura ad opere d’arte della “condomina” Galleria di Arte Moderna.

L’idea guida è che esistano corrispondenze tra le creazioni di stilisti e quelle degli artisti.  Un’idea ormai corrente ovunque nel mondo, mentre in Italia invece è ancora molto forte il  pregiudizio – di stampo cattolico e maschilista, alè! – che considera la moda una perdita di tempo disdicevole, una stupidaggine superficiale e “cosa da donne frivole”.

Come però diceva la grande poetessa Alda Merini, “Se le donne sono frivole è perché sono intelligenti a oltranza.”

E poi: vogliamo parlare di numeri? L’industria della moda italiana vale 4 punti di Pil. Ha un giro di affari  di 62,6 miliardi di euro, e sono 140 le aziende con almeno 100 milioni di euro di fatturato.  Il settore continua a crescere ed è in controtendenza rispetto alla grande manifattura. Luxottica, Prada, Armani, Calzedonia, Diesel, Ferragamo, Max Mara, Safilo, Zegna, Dolce & Gabbana, Benetton, Valentino, Tod’s, Geox, Moncler…Frivolezze? Civetterie? Al contrario. L’ Italia ha la leadership mondiale nella produzione di moda e di lusso e nel relativo export. Quindi riflettere su cosa sia la moda e su come si crei il gusto diventa  imperativo per capire i tempi, l’arte, la storia e la politica.

E dunque: il rapporto della moda con l’arte esiste senza ombra di dubbio, ed esiste da sempre. Vedere per credere la bellissima mostra adesso in corso all’Accademia, della quale ho parlato qui.  Si tratta di trame e di tracce – appunto –  che nel nostro periodo storico possono essere meglio capite avvicinando pitture e sculture ai capi di vestiario, con un esercizio mentale che ci aiuta a liberarsi dagli stereotipi.  Tracce raccoglie 170 tra abiti, accessori, dipinti e sculture. E se ne vorrebbero di più!

L’allestimento è interessante: intanto, ed è cosa straordinaria,  gli abiti non sono esposti in vetrine ma sono liberi di frusciare e respirare nell’aria; e poi sono montati su pedane ricoperte di vetri, il che consente prospettive inusuali ed affascinanti. E in più l’illuminazione crea giochi di luce ed ombre inusuali.

Insieme al nuovo allestimento è stato presentato anche il nuovo deposito del museo: allestito ed attrezzato come quelli delle più grandi istituzioni del mondo – “anzi meglio”, secondo il direttore Eike Schmidt, grazie alla sua esclusiva climatizzazione attiva e passiva. Il tutto è stato reso possibile dalla collaborazione fra le Gallerie degli Uffizi, il Centro Fiorentino per la Moda Italiana, Pitti Immagine e Pitti Discovery.  Roba da donne frivole, siamo proprio sicuri??


Margherita Abbozzo. Tutte le foto sono mie, libere di essere usate, graditi i credits, grazie.

La mostra Tracce è corredata da un percorso e da un catalogo virtuali, accessibili nella sezione Ipervisioni dal sito web http://www.uffizi.it

 

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Santi dandies e Madonne all’ultima moda: la nuova mostra alla Galleria dell’ Accademia.

Firenze l’hanno fatta grande i mercanti. I mercanti e i banchieri, che dal 1200 in poi hanno accumulato ricchezza, creato lavoro, costruito reti commerciali, e alla fine anche investito in arte. Sempre di più, fino a creare la meraviglia che sappiamo.

Sono state la lana, la seta e il velluto a costruire Firenze. Che da piccolo e insignificante borgo fuori dalle rotte diventa una città sempre più ricca e importante fino a superare Lucca, Pisa, Siena. Con l’arrivo degli scienziati, dei letterati e degli artisti diventa poi la “culla del Rinascimento”, come sanno tutti. Ma quello che succedeva prima è meno noto e meno studiato. Fino ad adesso, perchè la bella mostra aperta all’Accademia di Firenze racconta proprio questa storia: Tessuto e Ricchezza a Firenze nel Trecento, curata dalla direttrice Cecilie Hollberg mette insieme esemplari rarissimi di stoffe  – broccati, sete, lane e velluti trapunti d’oro – con opere pittoriche coeve magnifiche, per parlarci di quello che successe in città durante tutto il secolo quattordicesimo.

Con un allestimento di grande eleganza e studiato fin nei minimi particolari, la mostra raccoglie stoffe meravigliose e ci invita a guardare i quadri dell’epoca con gli occhi di chi viveva allora.

Davanti a ogni quadro i contemporanei degli artisti in mostra infatti sapevano calcolare a colpo d’occhio quanto panno sarebbe servito a realizzare ogni mantello di ogni Madonna, come ogni singola veste di angelo, e sapevano apprezzare la pesantezza, il lavoro e i costi delle varie stoffe in una maniera e con una sapienza che noi abbiamo completamente perso, come insegnava già il grande storico dell’arte Michael Baxandall.

La mostra fa luce sulle varie contaminazioni culturali e racconta anche come nacque la moda. A Firenze, naturalmente!

E racconta anche l’enorme ricchezza della città, dovuta agli scambi commerciali con tutta  l’Europa, l’Asia e la Cina, così come lo strapotere delle corporazioni – le famose “Arti”:  della Lana e della Seta, di Calimala, di Por Santa Maria…  – che se da una parte tenevano gli operai con stipendi da fame, dall’altra sponsorizzavano creazioni artistiche come le porte del Battistero, il cupolone, e tantissime altre, secondo quanto testimoniano ancor oggi gli stemmi disseminati su tutti i muri del centro storico.

Santi dandies e Madonne all’ultima moda, in una storia intessuta di traffici, mercanzie, fiorini d’oro e pale d’altare. Ed è la nostra storia, quella della città di Firenze.

Margherita Abbozzo.

Tutte le fotografie sono mie e sono libere di essere usate da chiunque, graditi i credits, grazie.

La mostra è aperta fino al 18 marzo 2018. Collabora anche il Museo del Tessuto di Prato, che ha realizzato una deliziosa proiezione multimediale incentrata su Francesco Datini, il grande mercante di lana pratese. Sono sei minuti che spiegano egregiamente come venivano realizzati e venduti i tessuti che resero le manifatture toscane celeberrime nel mondo.

Non perdetevi questa bella mostra!

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Memoria di James Natchwey

 

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James Nachtwey, classe 1948, è un fotografo di guerra. Anzi è IL fotografo di guerra par excellence. E’ americano, e quindi forse la migliore descrizione del lavoro che fa la da il suo titolo in inglese: war reporter.

Da quarant’anni. Una professione che logora mentalmente e fisicamente (e infatti Nachtwey è rimasto ferito in vario modo varie volte in vari teatri di guerra), e che suscita interrogativi problematici: serve a qualcosa fotografare le guerre? E documentare l’orrore di cui sono capaci gli uomini è mai servito a fermarne o a evitarne una? No, purtroppo.

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Ma lui non mostra segni di usura. E una mostra a Palazzo Reale a Milano racconta con forza la passione che lo ha spinto a seguire combattimenti e atrocità ovunque nel mondo, e che tuttora lo anima. Passione e convincimento che lui riassume in una frase: “Volevo fare il fotografo per fare il fotografo di guerra. Ero spinto dalla consapevolezza che una immagine che rivelasse la vera faccia della guerra fosse quasi per definizione stessa una fotografia contro la guerra.

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D’altra parte è necessario che l’orrore venga raccontato e documentato. Perchè il tempo passa, la gente dimentica, e se è vero che la vita deve andare avanti, sarebbe anche meglio che revisionismi convenienti non avessero la strada spianata dall’indifferenza e dall’infingardaggine generale. Il punto centrale è proprio questo: che valore ha la memoria? E’ probabilmente la madre di tutte le domande del nostro tempo, ed è esattamente l’alveo nel quale si inserisce il suo lavoro, già ben esplorato da un documentario agghiacciante del 2001, War Photographer di Christian Frei.

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Nachtwey anzi sembra un predestinato a vivere tra gli incubi: per puro caso si trovò a essere testimone anche degli attacchi dell’11 settembre al World Trade Center.

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Oggi è considerato il più grande fotografo di guerra vivente, e anzi viene definito l’erede di Robert Capa, l’intrepido fotografo della guerra civile spagnola, del D Day nel 1944, e di altri momenti topici fino a quando non saltò su una mina nel 1952.  Nonostante abbia vinto i premi più importanti, fatto parte e addirittura fondato agenzie fotografiche mitiche e vissuto avventure che sarebbero bastate e avanzate a un comune mortale, Nachwey non demorde e continua a credere nel valore di documentare quello che succede, con la speranza di “creare immagini così potenti da vincere la diluizione e assuefazione creata dai mass media, per scuotere fuori dall’indifferrenza le persone , per protestare, e con la forza di quella protesta, convincere anche altri a farsi sentire“.

Margherita Abbozzo

La mostra rimane aperta dal 1 dicembre 2017 al 4 marzo 2018 presso il Palazzo Reale di Milano, prima di altre sedi internazionali.

Credits: Tutte le immagini  James Nachtwey Works: © Trustees of Dartmouth College.

1. Protesters throwing petrol bombs during clashes between the Israeli troops and the local Palestinian population. Occupied Territories, West Bank, 2000.

2. A mother standing by her child. Sudan, Darfur, 2003.

3. A man carries his child across a river attempting to cross into Macedonia. Scores of refugees, including elderly, disabled, and families with children set out to make the dangerous trek. Macedonia, 2016

4. A bedroom became a battlefield as a Croatian militiaman shot at his Muslim neighbours. Bosnia-Herzegovina, Mostar, 1993

5. The south tower of the World Trade Center collapsing following the attacks. For months after the September 11 attacks, rescue workers continued to work in thick dust, clearing the site, which came to be known as Ground Zero. USA, New York, 2001.

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La Grande Bellezza del Cardinal Leopoldo de’ Medici, principe dei collezionisti.

 

Il Cardinal Leopoldo de’Medici doveva essere l’uomo più brutto di Firenze. Ma amò smodatamente la grande bellezza.

Fortuna per noi posteri, perchè accumulò collezioni magnifiche, e vastissime, delle quali sono colmi i musei cittadini.

Leopoldo nacque esattamente 400 anni fa, il 6 novembre 1617,

e proprio in questo giorno inaugura a Palazzo Pitti una mostra a dir poco strepitosa, che celebra la sua mente enciclopedica e la vera passione con la quale collezionò tesori per tutta la vita.

Naturalmente come da tradizione familiare anche lui collezionò entusiasticamente statuaria antica e contemporanea, nonchè quadri, disegni e incisioni, un assaggio dei quali è così bello da far venire altro che la Sindrome di Stendhal!

I quadri che comprava e che si metteva in casa, poi, erano di Tiziano, Pontormo, Bronzino, Correggio, Lotto, Botticelli… In più ebbe un grande intuito e una visione per il futuro molto innovativa: per esempio, fu il primo ad avere l’idea di mettere insieme una collezione di autoritratti di artisti, che poi è stata il nucleo di quella che ancora oggi è un vanto delle Gallerie degli Uffizi.

Collezionò spasmodicamente anche medaglie, cammei e monete – arrivando ad averne più di settemila!, delle quali erano colmi i magnifici stipi, vanto degli ebanisti fiorentini (alcuni di questi mobili-forzieri si vedono in mostra).

Non solo: collezionò avidamente anche oggetti in avorio a soggetto sacro e profano, tutti lavori uno più bello dell’altro, che provenivano soprattutto dal nord Europa e ancor oggi lasciano a bocca aperta per la manifattura incredibile. Non si fece mancare collezioni di libri, meglio se antichi, rarissimi, importantissimi.

Come se questo non bastasse, Leopoldo de’ Medici accumulò oggetti “curiosi” che gli arrivavano da tutti gli angoli del mondo, grazie a una fittissima rete di collaboratori da lui costruita: sicchè ecco nautili trasformati in tazze cesellate, pugnali kris malesi, frecce giapponesi, statuette preistoriche, e, star dello show, una maschera in pietra travertinite precolombiana, che arriva da Teotihuacan, in Messico, ed è databile al IV-VI secolo dopo Cristo.

La cosa straordinaria è che questa misteriosa mascherina (non si sa infatti che cosa sia esattamente, che cosa rappresenti, nè che funzione avesse) è probabilmente il primissimo oggetto che da Teotihuacan giungeva in Europa. E siccome gli scavi archeologici in quella zona furono avviati solo nel 1676 – cioè un anno dopo la morte di Leopoldo – è possibile che questo oggetto facesse parte di un tesoro precedente, addirittura azteco, e che sia arrivato al Cardinale per vie misteriose… ma ovviamente efficaci.

Tesoro tra i tesori è la sua collezione di strumenti scientifici, alcuni appartenuti al maestro dei suoi maestri, cioè a Galileo Galilei (che lui, da cardinale, cercò anche di far riabilitare dalla Chiesa, senza però riuscirci). Oggetti di importanza capitale perchè nel Seicento gli strumenti scientifici  contribuiscono, come scrive Mara Miniati nel suo ottimo saggio in catalogo, “alla nascita di un uomo “nuovo”, “capace di porsi domande per affrontare il “mondo nuovo” che si prospetta e di concretizzarle in una serie di strumenti inediti”.

In Toscana nascono nel Seicento quattro strumenti fondamentali: il termometro, il barometro, il cannochiale astronomico e il microscopio. Come osserva ancora Mara Miniati, questi “apparecchi diventavano un tramite tra l’uomo e l’universo infinito e infinitamente sconosciuto: ogni fenomeno mostrava una natura nuova, sempre da reinventare e sempre diversa.” Tra altri tesori, in mostra possiamo ammirare un bellissimo astrolabio del 13simo secolo, e l’unico esemplare di Giovilabio, che fu costruito da Galileo. E anche la sua famosa lente del telescopio, conservata come una reliquia nonostante si fosse rotta (a Galileo stesso), e poi alcune ampolle, esemplari di quei vetri scientifici che venivano prodotti proprio nel giardino di Boboli da maestranze specializzatissime.

Non basta? Oltre a collezionista sfegatato e realmente extraordinaire, Leopoldo fu anche membro dell’Accademia della Crusca e tra i fondatori dell’Accademia del Cimento, un uomo di studi insomma, che verso la fine della vita divenne cardinale per equilibri politici in seno alla famiglia.

Leopoldo de’ Medici fu un personaggio straordinario e questa mostra davvero meravigliosa, davvero imperdibile, anche perchè stupendamente ospitata nelle meravigliose sale di Palazzo Pitti, è un’ occasione per ammirare tanti veri tesori e riempirsi gli occhi di tanta grande bellezza.

Margherita Abbozzo.

Tutte le foto sono mie, a parte quella del dipinto che ritrae il cardinale bambino a cavallo, di Giusto Suttermans, 1624-1625 circa, olio su tela proveniente da Benešov (Boemia centrale), Castello di Konopiště, e il Ritratto di Leopoldo de’ Medici in abito cardinalizio, di Giovan Battista Gaulli detto il Baciccio, del 1668-1670 circa, olio su tela conservato alle Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, Firenze.

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Utopie Radicali

C’era una volta Firenze città piena di artisti e architetti che credevano a mondi alternativi e pieni di colore, di forza vitale e di allegria.

 

C’era una volta. Erano gli anni Sessanta. Quanto più dinamica, creativa, vitale e, se vogliamo, anche più divertente quella Firenze di allora rispetto a quella di oggi!

Firenze era una città vissuta, non un fondale per turisti. E’ vero, gli autobus passavano a lato del Battistero e tante piazze erano parcheggi, ma il centro era pieno di gente che viveva e lavorava in quelle stesse strade che oggi sono tristemente intasate da gente che passa con occhi glassati o siede ingozzandosi di “real Tuscan food”. C’erano tanti artigiani; e c’erano tanti architetti, che oggi la nuova mostra alla Strozzina raccoglie nella mostra Utopie Radicali, aperta fino al 21 gennaio 2018.

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Lavoravano in gruppi e collettivi, si chiamavano Archizoom, 9999, Superstudio, UFO, Zzigurrat. Erano architetti radicali, secondo la definizione di Giuliano Celant, che negli stessi anni battezzava il movimento dell’arte povera, ed erano aperti a idee e prospettive internazionali – ben prima di internet e google, quando informarsi non era facile com’è adesso.

Da anni il loro lavoro è riconosciuto e celebrato dai più grandi musei del mondo, e finalmente  adesso si può vedere a Palazzo Strozzi un’ampia selezione dei loro rutilanti lavori: più di 300 tra modellini, progetti – anche di discoteche, tipo il Mach 2 e lo Space Electronic! – fotografie, libri, riviste, video, mobili – fantastici! – lampade, tessuti, abiti, gioielli….

La loro era  un’ architettura che coinvolgeva ogni aspetto della vita e per questo si colorava di aspetti utopici. Soprattutto, si poneva come critica feroce della società borghese e rivendicava una nuova maniera di vivere la vita con una grande forza dissacrante. E oggi davanti ai loro lavori viene quasi da piangere pensando al conformismo attuale…

Questa architettura era figlia di innesti continui tra l’insegnamento in facoltà, dove lavoravano professori visionari – come Leonardo Savioli, Leonardo Ricci, Edoardo Detti, Giovanni Klaus Koenig, Gianni Pettena, Remo Buti, e tanti altri – e le arti visive internazionali e la musica contemporanea.

Si pensavano mondi nuovi e una Green architecture sostenibile socialmente ed ambientalmente, ben prima che andasse di moda come oggi.

Le idee venivano da tutto il mondo, e a Firenze si coagulavano in forme di magnifica creatività.

 

Il tutto è accompagnato dal libro bello e importante Utopie Radicali, che esce per i tipi di Quodlibet Habitat, con moltissime immagini e testi documentati ed interessanti su tutti i protagonisti di quella grande stagione dello spirito.

Margherita Abbozzo

Tutte le fotografie, a parte quella del divano Bazaar di Superstudio, (Casalguidi, (Pistoia), Giovannetti Collezioni) e quella del grande specchio Ultrafragola di Ettore Sottsass jr., (Firenze, Centro Studi Poltronova),  sono di Margherita Abbozzo, e sono libere di essere usate, graditi i credits, grazie.

Una serie di conferenze molto interessanti offre l’occasione di conoscere meglio il lavoro degli architetti radicali. Tutte le info pratiche qui.  Ci sono anche vari eventi collaterali, tra i quali segnalo la Maratona Radicals in Sala d’Arme lunedì 23 ottobre, e la mostra al Museo del 900 sul gruppo 9999. Info qui.

 

 

 

 

 

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Candle in the Wind: Urs Fisher in Piazza della Signoria a Firenze

 

3Da oggi Urs Fisher “occupa” ufficialmente Piazza Signoria con 3 lavori:  questa Big Clay #4 , che è una scultura alta sui 12 metri , in metallo.

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E Fabrizio e Francesco, due opere in cera – due candele vere e proprie, con tanto di stoppino, che rimarrano accese fino alla liquefazione totale –  con le fisionomie di Francesco Bonami e di Fabrizio Moretti. Due signori che sono entrambe toscani (Bonami fiorentino, Moretti pratese) ed entrambe nel mondo dell’arte: Bonami come curatore e divulgatore di arte contemporanea – ha scritto libri dai titoli come Lo potevo fare anch’io : perché l’arte contemporanea è davvero arte, del 2007,  Dal Partenone al panettone : incontri inaspettati nella storia dell’arte, 2010 e L’arte nel cesso, Mondadori, 2017. E Moretti come antiquario di statura internazionale e filantropo.

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Bonami volta le spalle al pubblico e ai turisti per compulsare il suo cellulare stando eretto su un frigorifero il cui sportello socchiuso trattiene a malapena una mini valanga di frutta e verdura;  Moretti invece emerge dalla forma di una scultura antica nella quale è compenetrato (è un san Leonardo, patrono dei prigionieri). Guarda serenamente avanti a sè, come affrontando con sommo sprezzo del pericolo quelli che saranno i commenti del pubblico.

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E’ facile immaginare che dopo le precedenti e non proprio felici istallazioni di Jeff Koons nel 2015 e di Jan Fabre l’anno scorso anche questi lavori scateneranno le lingue dei fiorentini.

Chissà quante ne sentiremo su Fisher, artista svizzero, classe 1973, residente a New York ed autore in passato di lavori di notevole effetto, come la candela-copia in cera a grandezza naturale del Ratto delle Sabine e quella ceh ritraeva un suo amico artista (non si sa chi sia) in una istallazione di grande effetto all’Arsenale durante la Biennale di Venezia del 2011:

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Candele anche queste, accese liquefatte scomparse, che ispiravano metafore poetiche e pensieri malinconici sulla vita, il tempo che passa, e sull’arte contemporanea.

Quando questa poi si trova in un contesto come Piazza Signoria…

Questa volta però questa istallazione funziona. BigClay#4 mette in gioco le dimensioni della piazza in senso ludico. Rovescia le prospettive e, a mio parere, inneggia alla forza creativa degli artisti.  Chi grida alla merda d’autore di Manzoniana memoria dovrebbe andare a rivedere cosa fu quel lavoro. Chi sostiene che non sia nulla di nuovo e chi inveisce contro il sistema dell’arte fa bene, ma in questo caso si tratta di un’opera nuova in piazza Signoria, opera che scombussola tutto (solo per qualche settimana, tranquilli).   La cosa bella è che fa discutere, e di questo abbiamo bisogno in una città che non conosce e quindi non apprezza l’arte contemporanea.  Adesso a Firenze son diventati tutti storici e critici di arte contemporanea e ognuno dice la sua. Mi sembra comunque un’ottima cosa.

 

Fino al 21 gennaio e al completo scioglimento delle due candelone in sembianze umane. L’ istallazione è courtesy of In Florence, manifestazione di arte contemporanea ideata da Fabrizio Moretti e Sergio Risaliti, promossa dal Comune di Firenze e organizzata in concomitanza con la Biennale Internazionale d’Antiquariato di Firenze. (e perchè nessuno parla di questo paradosso?)

Margherita Abbozzo

Le fotografie delle opere di Urs Fisher a Venezia sono mie, e sono libere di essere usate da chiunque lo voglia, graditi i credits, grazie. Quelle delle opere a Firenze sono di  Mattia Marasco / MUS.E

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